Andiamo all’Inferno!
Oggi vorrei parlare un po’ dell’Inferno. Non di quello vero né di quello dantesco, ma di quello di un sommo poeta nostrano: Cesare Viviani. Come saprete, Cesare ha scritto un libro il cui titolo è tutto un programma: “L’Inferno. Robba dell’artro mondo. 34 canti in vernacolo lucchese da un’idea di Dante Alighieri”. In questo suo viaggio, non lo accompagna Virgilio, ma “Geppe”, personaggio prodotto dal genio poetico di Gino Custer De Nobili.
Nell’anticamera, incontra gli impiegati comunali e statali, che corrono qua e là senza una destinazione precisa. Da sempre gli “statali” sembrano nemici da combattere. Militano nell’esercito della Burocrazia e per questo tutti ce l’hanno con loro. O forse ce l’hanno per i loro privilegi. Stipendi certi qualsiasi cosa accada, un posto di lavoro a prova di bomba; il mese di ferie, oltre al mese di malattia per andarsene a caccia; un orario di entrata ed uscita, variamente interpretabile; ed in particolare sempre accolti in luoghi caldi e condizionati. Permanentemente seduti su comode poltrone ribaltabili, che alla bisogna consentano loro momenti distensivi e di riflessione, o sia pure, soltanto, in posizione orizzontale, per contare senza sforzo, i travicelli del soffitto. E poi vengono considerati un po’ vagabondi, ma sono calunnie dettate dall’invidia. Ne ha quasi pietà il nostro Geppe.
“En ‘ genti, disse, che han’ poghin’ da gode’;
‘un enno eroi, né ‘un enno criminali
camparon’ senza infamia e senza lode”.
Poi, quasi rispondendo ad una domanda che Cesare non osa fare, il Maestro continua:
“Si tratta d’impiegati comunali,
di mesze stiappe, di quarche vagabondo,
c’enno perfin’ miglioni di statali;
“gente che girò a vvoto per ir mondo
E ‘un fece mai gran male e neanco bene
E ora ‘un va più ‘su, né scende ar fondo”.
Pertanto, non essendo né eroi né criminali, ma avendo soltanto fatto “mangiare un’ala di fegato” alle tante persone incontrate in vita, il loro castigo non poteva essere diverso. Dio nella sua infinita bontà e giustizia li condanna a correre senza mèta (è la legge del contrappasso: forse perché essi non avevano mai avuto la necessità di correre in vita. N.d.r.), punzecchiati dalle zanzare.
“E ssanguinavin’ tutti dalle vene,
pinzati da szanzare, che ronzavin’
come fan’, nelle fabbrie, le sirene”.
Cesare però non resiste a quella vista e chiede al Maestro di proseguire il viaggio.
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