C’è differenza tra “Bar” e “Caffè”.
Non voglio parlare troppo a lungo del bar, che ognuno di noi conosce bene. Nell’enciclopedia Treccani viene definito così: “Parola inglese, che dal suo valore originario di “sbarra” è passata a significare un locale ove si mescono bevande, appunto perché l’inserviente – o barman – è separato dal pubblico per mezzo di un’alta tavola che divide in due l’ambiente. In italiano siffatto locale si chiamerebbe più propriamente mescita: però questo termine, che è diffuso più che altrove in Toscana, è ormai riservato quasi esclusivamente alle vendite di vino”.
E’ il locale del “mordi e fuggi”, dove raramente si siede e dove, addirittura, spesso, mancano le sedie per farlo.
Il Caffè di un tempo
Il “Caffè”, inteso come era un tempo, oggi non esiste più, mentre una volta, le città ne erano piene. Quello era un luogo d’incontro, di relax, dove, gustando una tazzina di caffè si ragionava di politica, di letteratura, di arte, di sport. Un caffè che doveva essere sorbito, meditando, su quel che si stava facendo e dalle caratteristiche del tutto particolari.
Il pensiero di Talleyrand
Charles-Augustin de Sainte-Beuve Talleyrand, era uno che se ne intendeva e faceva scuola per la sua galanteria, raffinatezza e per la sua arguzia. Era un intenditore, in particolare, di belle donne. Pare che nessuna gli resistesse, sia che fosse giovane, anziana, popolana, borghese o nobile. E per quanto riguarda il caffè, inteso come bevanda, non si può contraddirlo, perché lui usava dire: «Posso perdonare alle persone di non essere del mio parere, ma non perdono loro di averne uno».
Per lui quella bevanda doveva essere nera come il diavolo, calda come l’inferno, pura come un angelo, dolce come l’amore, e alla quale non doveva mancare nessuno dei “tre C”. Quindi doveva essere “caldo”, “carico”, e soprattutto “comodo”, sorbito in soffici poltrone.
Chissà che Talleyrand non abbia appreso dai napoletani le caratteristiche che un caffè (come bevanda) deve necessariamente possedere per dirsi buono. Anche a Napoli, vige la regola del “c.c.c.”, acronimo di “cazzo, come, coce”.
Il Caffè, questa volta inteso come locale, era anche un luogo di ispirazione. Gino Custer De Nobili ed anche lo stesso Giovanni Pascoli pare che al Caffè Caselli di Via Fillungo, abbiano composto alcune delle loro poesie. Addirittura Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrisse il Gattopardo, seduto ad un tavolo di un Caffè di Palermo.
Era un locale prevalentemente maschile, ma che alla domenica, gli uomini condividevano con le loro donne per un “caffè” ed un “cordiale”. In particolare, a Lucca, era il Caffè delle Mura, che meglio di tutti gli altri soddisfaceva le esigenze della famiglia, perché, all’aperto, consentiva ai figli di scorrazzare in lungo e in largo in un luogo sicuro, e giocare al rimpiattino dietro i grandi platani.
Nella foto: l’Antico Caffè delle Mura a Lucca