C’è una ghigliottina nel mare di Viareggio
Ci fu gettata nel 1847, perché i Lucchesi non volevano più sentire l’odore del sangue umano. Sempre per questo motivo, bruciarono sulle Mura, il palco che era servito per decapitare cinque persone. Fu l’ultima esecuzione avvenuta a Lucca, ed una delle ultime in Italia.
Ne parla Rodolfo Del Beccaro in suo libro dal titolo “Lucca leggende e storie”. Questa, purtroppo, non fa parte delle leggende, ma è storia vera.
Finì così sgominata una famosa banda composta da 9 persone, quasi tutte abitanti nella zona circostante Bagni di Lucca. Soltanto una di esse, certo Natale Giusti, di professione imbianchino e doratore abitava a Lucca-dentro.
Sette finirono in carcere
Dei nove banditi soltanto uno, Tommaso Bartolomei di Monti di Villa, riuscì a sfuggire alla retata del bargello. Fu salvo anche Filippo Francesconi di Vorno, il primo degli arrestati, al quale era stata promessa l’impunità, se avesse fatto i nomi dei compari. Gli altri sette finirono nelle carceri di San Giorgio, fra l’agosto ed il settembre 1842.
Erano accusati di furti violenti e sacrileghi, avvenuti tra il 1841 ed il 1842, in chiese e varie case nella zona di Vorno, Badia di Cantignano, Castagnori e dintorni. Ai furti si aggiungevano le sevizie: la “perpetua” di un parroco fu fatta sedere su testi riscaldati di necci, sotto gli occhi del prete legato ad una sedia.
Il processo
Il processo si celebrò dal 24 al 28 aprile 1845, dinanzi alla Rota Criminale costituita da tre giudici, ai quali se ne aggiunse un quarto: l’avvocato Luigi Fornaciari che ne fu il Presidente.
Tra i difensori c’era anche il giovane Francesco Carrara, che diventerà famoso per le sue numerose opere e per la sua battaglia intesa a riformare gli ordinamenti penali e processuali e per l’abolizione della pena di morte.
Il Palazzo Pretorio, dove si svolgeva il processo, fu gremito di pubblico. Scrive il Del Beccaro: “Nella sala delle udienze, le teste degli imputati furono disegnate dal pittore Baggi e litografate dal Bertini. Le relative stampe andarono a ruba ed in pochi giorni ne furono vendute oltre duemila”.
Gli avvocati basarono la difesa sul fatto che il codice penale napoleonico, non prevedeva più l’applicazione della pena di morte per i casi di furto violento. Questa linea, però, non fu accettata perché quello in vigore presso i governi borbonici, non era stato modificato. Furono comminate pertanto sei pene capitali e l’assoluzione di Francesco Prosperi (difeso dal Carrara), settantenne di Monti di Villa, per il quale era stata richiesta la pena dei lavori forzati.
In appello, fu confermata la sentenza.
Carlo Lodovico avrebbe potuto graziarli
Soltanto il duca Carlo Lodovico avrebbe potuto mitigare i rigori della legge col diritto di grazia, ma la negò, in quanto, a suo parere, la pena di morte era necessaria per impedire il diffondersi della delinquenza.
Commutò la pena di morte in lavori forzati, soltanto per Natale Giusti, considerato infermo di mente
Il palco dell’esecuzione era stato allestito presso porta San Donato.
Furono moltissime persone confluite a Lucca fin dal giorno precedente, per assistere al tragico spettacolo: alberghi e taverne strapieni.
Il boia di Lucca, Tommaso Jona, fu molto contrariato, perché avendo superato i 70 anni, dovette essere sostituito da quello di Parma, il quale procedette all’esecuzione, avendo come aiutanti i suoi tre figli.
Così il 29 luglio 1845, poco dopo le 8 del mattino, rullarono i tamburi e cinque teste rotolarono nel paniere. Subito dopo ci furono i “rintocchi dell’agonia”, provenienti dai campanili delle chiese di Lucca.
Nella foto: Porta San Donato oggi