Gente di corte
Di Giampiero Della Nina
Capitolo 1
Pacconi
Pacconi era soltanto una strada, ma tutti lo consideravano un paese nel paese. La gente che vi abitava costituiva una grande famiglia, i cui membri avevano in comune qualche difetto e tante virtù, fra le quali, la generosità, che si esprimeva con l’essere pronti a dare una mano a chi ne aveva bisogno; una gran voglia di lavorare per non dipendere dagli altri, ed il rispetto degli impegni presi, di qualsiasi genere essi fossero. Si faceva la spesa soltanto se si era in condizioni di pagarla subito o, al massimo, alla fine del mese. Chi aveva bottega, in paese, sapeva di poter dormire sonni tranquilli se avesse dovuto far credito ad un “pacconamo”, come veniva definito colui che abitava in Via Pacconi.
Altra virtù era l’onestà: mai un pacconamo si sarebbe sognato di mettere di mezzo un qualunque cristiano o chiudere l’uscio di casa, per non fidarsi degli altri. Tutto ciò aumentava l’orgoglio di appartenere a quella comunità, abituata da sempre a far da sé, a non chiedere mai nulla alle istituzioni, neanche quando, almeno due volte all’anno, subiva devastanti inondazioni provocate da un capriccioso torrentello, la “Ralla”, che delimitava quella borgata ad ovest. A nord e a sud, era chiusa da due vie: la principale delle quali, quella a sud, conduceva alla città di Lucca; infine, marcava il lato est, la via Romana che correva sotto la collina. La borgata appariva quindi un rettangolo, rigonfio nella parte centrale, che oltre alle casupole di chi vi abitava, si faceva il vanto di ospitare anche il cimitero del paese.
Dalla via sterrata che l’attraversava longitudinalmente, per circa mille e duecento metri, da sud a nord (Via Pacconi), si diramavano a distanza quasi regolare tre brevi deviazioni, due a sinistra ed una a destra, che sfociavano in altrettante corti, palcoscenici della vita del borgo.
A circa metà di quella strada c’era un punto chiamato “alla luce”, dove ogni mezzogiorno, gli uomini si riunivano per parlare del più e del meno. A quell’ora quasi tutti erano tornati dal lavoro ed avevano già mangiato ed i ritardatari, come Chiodo, si portavano dietro forchetta e tegamino per non perdere una sola parola di quelle conversazioni che il più delle volte degeneravano in discussioni accanite, e soltanto raramente in baruffe.
Il luogo dove avvenivano quelle riunioni si chiamò così, dopo l’installazione di un punto luce da parte dell’amministrazione comunale. Era l’unico di tutta la borgata, consistente in una lampadina che la si poteva notare, soltanto a notte fonda, come ebbe modo di precisare il Putrì.
Ognuno a Pacconi era identificato e chiamato con un soprannome: faceva eccezione un tale, detto “Massarella”, per il quale si derogò, sembrando già abbastanza penalizzato da un cognome così inusuale per una borgata dove da secoli ricorrevano i soliti: Del Grande, Della Nina, Da San Martino, Del Prete, Rovai, Giannini, Martinelli e Lucchesi.
Perché poi, dal Pisano fosse venuto ad abitare a Pacconi, questo Massarella, nessuno glielo chiese mai, ma si suppose che fosse per ragioni politiche: forse era stato troppo comunista. In ogni caso, questo ometto mingherlino, claudicante, per la vistosa protesi del piede destro, riuscì a farsi voler bene e si integrò prontamente nella nuova comunità che, appena due anni dopo, lo considerò come fosse nato e cresciuto lì.
Di mezza età nel 1938, quando arrivò, portò con sé la moglie ed un figlio ventenne, ribattezzato senza fantasia o sforzo, Massarellino, nato Ezio, che sapeva leggere e scrivere, tanto è vero che l’esattore delle tasse se ne servì per notificare le cartelle di pagamento. Massarellino era balbuziente, di una balbuzie che lo rendeva simpatico a tutti. Specialmente quando minacciava di piovere, si bloccava sulle parole e soltanto chiudendo gli occhi e ripetendo più volte l’ultima sillaba, riusciva a sciogliersi e ripartire con il concetto.
Erano veramente poche le cartelle da notificare, tanto è vero che Massarellino, in un primo tempo, fu impiegato soltanto per mezza giornata al mese. Quel lavoro avrebbe potuto essere svolto dallo stesso esattore, ma lui abitava a Lucca e quando veniva al paese, preferiva occuparsi d’altro, specialmente dopo essere stato selvaggiamente aggredito da un debitore disperato, che non aveva una lira e come si giustificò, non poteva dare sangue, se era rapa.
Altra caratteristica della borgata, era quella della comunanza dei mestieri. Ci fu il periodo dei barrocciai per il trasporto dei generi alimentari in città, prima della guerra, che continuò anche dopo, ma quasi interamente limitato al trasporto di pietrisco raccolto nel Serchio, e destinato a sanare le ferite delle strade, prodotte dalla recente guerra. Nei momenti di minore richiesta di sassi e pietre, i pacconami andavano a Livorno in bicicletta per acquistare sigarette di contrabbando e rivenderle poi sul mercato di Lucca. Negli anni successivi, si dedicarono alla produzione di scope di saggina ed anche al commercio ambulante di frutta e verdura.
Nessuno, a Pacconi, poteva dirsi contadino, ma tutti si ingegnavano di lavorare quei fazzoletti di terra, vicino casa, che producevano quel poco, perché da anni ed anni non conoscevano riposo.