Il pane: un alimento quasi dimenticato
Che buon profumo aveva quel pane cotto a legna! Quel buon odore si espandeva per tutta la corte, ti inebriava: era il profumo di casa tua!
Il forno così come il pozzo erano generalmente annessi della corte e quindi di proprietà comune. Ogni famiglia lo utilizzava per cuocere tanti pani bastanti per una settimana, ma anche per dieci ed a volte quindici giorni. Il forno era alimentato con i tralci della vite potata, con i rami secchi, con le pigne dei pini raccolte nei boschi.
La massaia, la sera avanti, prima di iniziare il lavoro, si faceva un segno di croce, poi cominciava a lavorare farina, acqua e lievito, ben sapendo che il pane sarebbe stato tanto più buono quanta più energia e tempo fossero stati dedicati alla lavorazione.
L’impasto, coperto con una tovaglia di tela, veniva lasciato a lievitare per tutta la notte nell’arcile. La mattina successiva veniva completata la lavorazione e l’impasto suddiviso in tanti panetti, sui quali con il coltello si tracciava una croce, sia per riaffermare la fede cristiana, sia per favorire la lievitazione. I panetti, allineati su una lunga tavola, venivano portati al forno già riscaldato e pronto per la cottura. C’era un sistema per verificare se la temperatura del forno fosse effettivamente quella più adatta: vi si metteva prima una focaccia e se il tempo necessario per indorarla era breve, come di un «recitar del Credo», quello era il momento buono.
«Profumo di pane e di bucato ogni ambiente rende beato», si diceva, riferendosi al pane di farina bianca. Ma quando il grano mancava si doveva ricorrere al granturco, con il quale si produceva il pane dei poveri, non altrettanto profumato e gustoso.
In ogni caso il pane era una benedizione di Dio e come tale doveva essere trattato. Ad esempio, era peccato piantare il coltello nella pagnotta, perché corrispondeva ad accoltellare il Signore. E quando cadeva un pezzetto di pane in terra, andava raccolto, baciato e mangiato perché si diceva che fosse il corpo di Gesù. Se proprio si era sporcato da non poterlo recuperare, lo si doveva buttare sul fuoco.
Si doveva stare attenti a metterlo sulla tavola girato per il giusto verso (la parte più larga doveva poggiare sul tavolo), perché, messo all’incontrario, avrebbe portato soltanto disgrazie, fino alla morte del capo di casa.
In altre zone della Lucchesia, si diceva che mettere il pane alla rovescia faceva sentir la pancia al fornaio, mentre a Roma, a nessuno importava che il fornaio avesse mal di pancia, ma si raccomandava ai ragazzi di non mettere il pane «a ppanza pell’aria», per non far piangere la Madonna.
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Caro Giampiero, nella tua descrizione, peraltro sempre precisa e circostanziata degli argomenti che tratti, per quanto riguarda il pane non hai parlato del lievito che, almeno fino agli anni ’50 del secolo scorso era nient’altro che un pezzo di pasta messa in un recipiente di terracotta senza coperchio lasciata nell’arcile fino al successivo utilizzo per un’altra infornata di pane .Poichè già in una settimana ed ancor più nei quindici giorni che passavano tra una preparazione e l’altra del pane il lievito naturale si seccava ed induriva, veniva fatto rinvenire con acqua calda ,e una volta liquido, si impastava con la farina e l’acqua. Con questo lievito naturale la lievitazione era piuttosto lenta e richiedeva molte ore ed una copertura dei pani con panni o teli di lana che mantenessero costante la temperatura in modo che i fermenti avviassero la lievitazione .In ogni caso quel tipo di lievito naturale, antico come l’umanità, dava una lievitazione contenuta che conferiva alle file di pane una conformazione tale che dal taglio sortivano fette basse e compatte, ma che avevano una fragranza ed un sapore incredibili purtroppo scomparsi da quando nella panificazione il lievito naturale è stato sostituito con il lievito di birra ,magari misto ad altri aromi che ,forse rendevano– e rendono tuttora– i pani più belli all’occhio ,ma che erano –e sono anche adesso–piuttosto insipidi e dalla effimera conservazione: dopo un giorno dall’uscita dal forno erano e sono gommosi , immangiabili ed inutilizzabili per altri usi( ad es. per fare la panzanella ,i ripieni per gli arrosti ed altri piatti ,il pangrattato per le impanature delle carni etc). Anche se sono rimasti in pochi, almeno a Lucca e nella Piana, i forni che panificano alla maniera classica dei nostri contadini, sia per l’uso degli ingredienti del pane ,sia per il tipo di forno rigorosamente con mattoni in cotto ,e per piano e per la volta, tuttavia ce ne sono ancora che fanno il pane in quel modo .Io ne conosco almeno due :il Paganelli di Sesto di Moriano e .,non ricordo il nome ,il fornaio di Matraia .Da loro compro regolarmente il pane soltanto due volte la settimana :filoni da 1,5 kg che, affettati anche dopo 3-4 giorni sono ancora morbidi e profumati e quando sono secchi restano validi per gli usi diversi che sopra ho citato.
Un’ultima precisazione riguarda un altro metodo infallibile per capire quando il forno (ovviamente rigorosamente di mattoni in cotto) è caldo e pronto per l’infornata :si bruciano le fascine della potatura degli olivi e delle viti nel forno(sono i migliori materiali anche perchè dalla loro combustione rimane una cenere finissima ,bianca e inodora i cui residui, dopo la spazzolatura del piano del forno fatta con un mazzo di foglie fresche di sambuco, non sporca il pane ;ovviamente queste raffinatezze ce le possiamo scordare anche con il Paganelli e col fornaio di Matraia!),dicevo si bruciano le fascine fino a quando la volta di cotto ,nera ed affumicata al momento dell’accensione del forno ,diventa completamente bianca :è’ quello il momento di infornare ,perchè il bianco dei mattoni indica che questi hanno assorbito una temperatura ed un calore che gradualmente restituiranno ai pani fino alla loro cottura. Cordiali saluti.
Grazie Glauco. I tuoi interventi sono graditi e preziosi.