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La paura rende irragionevoli, ieri come oggi
Negli anni ’80, curavo per La Nazione, una rubrica dal titolo “Accadde come oggi cento anni fa”, con articoli che volevano dimostrare che nonostante il trascorrer del tempo, di fronte a determinati avvenimenti, la risposta dell’uomo restava la stessa.
Rispolverando quei documenti, mi è capitato tra le mani, un articolo, apparso su La Nazione, in data 1 febbraio 1982, dal titolo, “L’ordine è: arrestare uno spirito a forma di cane”.
Rileggendolo, ho capito che la paura, ad esempio, può mettere in riga un popolo intero, chiudergli occhi e fargli commettere le azioni più insensate che, senza la paura, quel popolo non avrebbe mai compiuto ed anzi a distanza di tempo, se ne sarebbe profondamente vergognato.
Nell’edizione del 16 gennaio 1881, il “Fulmine secondo”, giornale lucchese, riportava la vicenda di un cane, che in quelle gelide notti, terrorizzava la città con il suo latrare demoniaco.
Non c’era abitante che se ne uscisse di casa, per la paura di incontrarlo. Nessuno lo aveva visto, tuttavia lo si dipingeva come “un cane grosso, col muso somigliante a quello di un uomo che chiede Misericordia… con la coda a volpe”. Si diceva che ogni sera uscisse da uno dei pertugi del Convento dell’Angelo in via Santa Chiara. Anche il luogo era stato scelto con cura. Infatti, intorno al 1640, quel convento fu teatro di un altro importante avvenimento spiritistico che ebbe come protagoniste giovani suore indemoniate.
Tutte le guardie dunque furono mobilitate per la caccia al Maligno; l’ordine era di “arrestare uno spirito in forma di cane”. Furono aperti i fognini del convento uno ad uno ed i luoghi più reconditi della città, ma di quel diavolo d’un cane, neanche l’ombra. Tuttavia la paura rimaneva ed avrebbe costretto la gente, chiusa nelle case, finché non fosse stato preso.
L’occasione si presentò una mattina, verso le undici, quando un gruppo di monelli, nei pressi di Santa Maria Forisportam presero a rincorrere un povero cane gridandogli dietro: “Eccolo… E’ passato ora… E’ entrato in cantina”.
Arrivarono sette guardie della città, che “a sciabola sfrodata affrontarono l’ira di un disgraziato cane che perseguitato ingiustamente ed ingiustamente ferito al capo da un colpo di fucile, si era rifugiato in una cantina! Diciamo ingiustamente perchè le guardie sdegnate con ragione, di tanti ordini buffoneschi, qualunque cane fosse a loro capitato dinnanzi doveva subire l’estremo supplizio e così avvenne”.
Poco dopo un gendarme uscì dalla “cantina portando seco questo cane a cui era stata rotta una gamba e che versava sangue dalla bocca e dalla vita”.
Lo accompagnarono a calci per le vie della città e quando per il gran sangue perduto la povera bestia dava segni di venir meno, si raddoppiò la razione dei maltrattamenti, e così fino al canile pubblico dove fu impiccato.
Ma il cane non era quello. Il giorno dopo fu tratto in arresto un altro randagio. Dopo che fu giustiziato anche questo, si seppe che in via S. Paolino, avevano sentito il latrato del vero cane. O questa storia finiva o finivano i cani evidentemente. E finì in via Santa Chiara là, dove la storia era cominciata e là dove si poteva concludere senza cedere nulla al misterioso svolgersi dei fatti.
Alcune sere dopo, in refettorio, la più vecchia delle monache, si sentì baciare insistentemente un polpaccio. Era quel cane e la suora gli domanda:
-In nome di Dio, cosa tu vuoi?
-Ho fame – replicò la bestia – e perché ho fame mi si desidera la morte.
La monaca allora riprese: “Anche tu devi essere una vittima del Demonio”.
Sicuramente gli dette da mangiare e poi gli disse: “Parti e che la sorte ti sia propizia”.
Prodigio: il cane parlava! Ma non era certamente un uomo, altrimenti, fra tante monache avrebbe, scelto di baciar la gamba della più giovane.
Nella foto: il chiostro di un convento.