La tradizione delle ‘cento ova’ e del ‘conditoglio’
Oggi, si è portati a vivere pensando a sé stessi; difficilmente aiutiamo il prossimo e, d’altra parte, non ci aspettiamo che qualcuno ci aiuti al momento del bisogno. È nostro prossimo il conoscente con il quale ogni mattina scambiamo un frettoloso saluto ed anche chi, dalla televisione, ci parla del tempo che farà. Entrambi sono nostri ‘prossimi’, ma così lontani!
I più anziani rilevano, con amarezza, quanto sia cambiato il modo di interpretare la vita all’interno della stessa comunità. Più volte mi sono soffermato a considerare gli aiuti che si prestavano i vicini fra loro affrontando le faccende dei campi: la vendemmia, lo sfoglio del granturco, la vangatura, la raccolta del fieno, delle olive, castagne e così via.
Qualcuno può pensare che ciò avvenisse per la necessità di affrettare la raccolta dei prodotti della terra, onde sottrarli ai capricci del tempo; altri ritengono che lavorando in compagnia, aiutasse a sentir meno la fatica. Vero; ma alla base di tutto c’era una diversa concezione della natura dell’uomo, considerato una pochezza sparata nell’immensità dell’universo e come tale bisognevole dell’aiuto di tutti.
Se la malattia rendeva inabili al lavoro, i vicini, ed anche i ‘meno vicini’, si privavano di qualcosa per soccorrere gli sfortunati o si sostituivano all’ammalato nel tirare avanti le faccende dei campi. Meno parole e più fatti! Così, c’era il detto: «meglio un aiuto che cento conforti».
Un esempio di questa solidarietà, ci viene da Castiglione Garfagnana, con l’usanza delle ‘cento ova’.
«Quando – racconta Lorenza Rossi – un concittadino si ammalava di esaurimento nervoso e sfuggiva, triste e sofferente, la compagnia degli amici, il paese si mobilitava in toto. Un numero cospicuo di volontari andava alla ricerca di cento uova e le offriva al conoscente in difficoltà». Non c’era bisogno di malattie o di morte perché scattasse il meccanismo dell’aiuto reciproco: nella corte, era impensabile fare a meno della solidarietà. Ci si prestava di tutto alla bisogna: piatti, bicchieri, sedie e perfino il ‘conditoglio’.
Questo era l’osso del prosciutto che passava dalla famiglia che aveva ammazzato il maiale a quella che doveva insaporire la zuppa, in mancanza di olio o di grassi animali. L’osso, con ancora attaccati invisibili brandelli di carne, dopo un veloce tuffo nel laveggio, veniva riconsegnato al mittente che lo attaccava al chiodo per i successivi utilizzi.
A Villa Basilica – racconta Romelia Barsi – si diceva che «Con l’osso del prosciutto, prima ci si fa sei volte la minestra, poi si presta».
Nella foto: un momento della “battitura”.
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