Per la nuora c’era un esame da superare
Abbiamo assistito a quel cerimoniale (vedi articolo del 9 giugno), dell’entrata della nuora in casa dei suoceri, dove si sarebbe sistemata per sempre.
Era una formalità quello della consegna del ramaiolo e del grembiule da parte della suocera alla nuora, che significava il passaggio dall’una all’altra dello scettro del comando della casa. In realtà, la nuora avrebbe conquistato i galloni di generale, soltanto a seguito di prove superate nel tempo.
Quello cui era sottoposta la giovane nuora era un esame particolare che aveva una ricaduta anche sulla famiglia da cui proveniva, ed in particolare sulla mamma, perché alle mamme era affidata l’educazione dei figli.
Dovendo parlare della moglie del figlio, la suocera non diceva “la mia nuora”, bensì “la mia sposa”, come fosse lei il marito. E se in una casa di nuore ce n’erano più di una, allora, alla locuzione “la mia sposa”, doveva aggiungere il nome.
Le materie d’esame
Avrebbe parlato con orgoglio della “sua sposa”, se avesse superato quell’esame che durava qualche mese: il tempo necessario per capire se sapeva far da mangiare, cucire, rammendare, tessere, filare, fare il bucato, il pane e, fra una faccenda e l’altra, sfornare figli.
Quando, dopo il bucato, stendeva i panni, anche le vicine di casa erano autorizzate ad esprimere un giudizio e dare il voto.
Era promossa, almeno in materia di bucato, se le vicine, si facevano premura di andare dalla suocera per dirle quanto fossero puliti e bianchi quei panni.
Era bocciata, se le comari non si facevano vedere, preferendo tacere. Il metodo per fare un buon bucato ci viene descritto da Raffaella Gambogi:
La tecnica del buon bucato
“L’acqua bollente, passando attraverso la cenere e i panni accatastati dentro la conca, fuoriesce dal cannello alla sua base chiamato “spìscioro”. Veniva poi riscaldata di nuovo e riversata sulla cenere, fino a che la temperatura dell’acqua che fuoriusciva non era la stessa di quella versata, cioè bollente.
Ciò stava a significare che tutti i panni erano stati passati dal liquido.
Una volta raffreddato, veniva tolto e si passava alla fase di lavaggio a mano nel lavatoio o là dove non c’era, su delle pietre direttamente nel greto del rio.
I panni, una volta ben sciacquati e strizzati venivano fatti asciugare in corte o nei prati, in caso di pioggia al coperto nei callari o nelle soffitte”.
I lenzuoli, fatti al telare di casa, pesavano tantissimo specialmente quando erano inzuppati di acqua; così venivano portati al rio per la risciacquatura da almeno due donne, stesi su una lunga pertica che le due donne tenevano in spalla ad evitare che i lenzuoli toccassero terra e si sporcassero.
Nella foto: donne che lavano in fiume
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Storia bellissima. Lo ricordo bene quando il bucato lo faceva mia nonna con la conca posizionata accanto al camino. Il liquido che usciva lo chiamava ” ranno” e veniva riutilizzato fino a quando non usciva caldo Poi la “conca” serviva anche da vasca da bagno.
Ti ricordi il colore del ranno? Io mi sono sempre chiesto come facessero i lenzuoli ad uscire così bianchi. Grazie per la tua attenzione.
Io sono di un’epoca molto più recente di questa e proprio perchè non c’ero mi è sempre piaciuto farmi raccontare e leggere usi e costumi di altri tempi.
Grazie per questo blog, trovo adorabili questi articoli, vere e proprie chicche
Grazie Anita, ci sono certe cose del nostro passato che meriterebbero che fossero insegnate anche a scuola, per conservare la memoria del nostro passato e per tenere in alto la bandiera della nostra lucchesità.